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Contro i papà

Una riflessione sul libro “Contro i papà” di Antonio Polito

“Psicanalisi senza teoria freudiana?” Questo il titolo di un  convegno cui ho recentemente partecipato a Brescia. Niente  paura. Non voglio dare conto qui del peraltro interessantissimo  contenuto. Mi limito a citare il titolo a riprova del fatto che a più di cent’anni dall’avvio della psicanalisi c’è ancora una certa, come dire, titubanza a liberarsi ufficialmente degli assunti teorici freudiani ed a fondare  altrettanto ufficialmente  – in pratica lo si fa già da lungo tempo – la prassi psicanalitica su posizioni teoriche e risultanze scientifiche assai  più innovative e recenti. Se dunque anche  gli psicanalisti, che di rapporti d’amore e d’odio dovrebbero intendersene, fanno così fatica a liberarsi di papà Freud – che non era certo un babboccione – si possono forse meglio comprendere le difficoltà  dei padri  a liberarsi dai propri”veri” padri ed a consentire che i  figli si liberino di loro.

Sì, perché “noi (invece) siamo la prima generazione di padri nella  storia ad aver elaborato una complessa ed altamente egoistica strategia di sopravvivenza attraverso la captatio benevolentiae dei nostri figli. Fingiamo di farlo per il loro bene ma in realtà lo facciamo per il nostro.” Così  Antonio Polito nel suo  “Contro i papà“, Rizzoli Editore. Nel quale l’autore prende posizione sul tema in maniera chiara, spesso risolutamente ironica, consentendo in tal modo anche a noi lettori di prendere la nostra, magari dissentendo. Il libro ha inoltre il merito di  offrire spazio a molteplici livelli di lettura.

La più immediata  e diffusa – stando almeno ad alcune recensioni  –  ma non certo quella splendidamente analitica  di @colvieux   – è quella di farne una prova che “il modello educativo della generazione del ’68 ha fallito”, come è scritto sul retro del libro, assunto che secondo me semplifica ed estremizza molto quello che l’autore scrive dentro il libro. Ma il saggio di Polito si può leggere anche e soprattutto come una illuministica e direi anche freudiana opera di disvelamento di molti miti pseudo-democratici ed altrettanto pseudo- progressisti. Con dati solidi e convincenti  argomenti Polito smonta la retorica delle credenze  e ci mostra l’amara verità  che ci sta dietro.

Così è per l’Università dequalificata, “sotto casa” “Ecco il paradosso: un sistema egualitario di istruzione rafforza e radica l’ineguaglianza sociale. Ecco come i padri italiani si sono lasciati ingannare, pagando con le loro tasse un’università inutile per i loro figli”.

Sull’ “inattività dorata”di alcuni giovani (delle classi più abbienti, aggiungerei io) e sulla ricerca del lavoro tramite canali familiari Polito non risparmia – giustamente – nessuno: ”  Intendiamoci, avercela con i padri, individualmente presi, che tollerano e proteggono e giustificano la tendenza all’inattività dorata dei figli, è lo scopo di questo libro. Ma non al punto di lasciare impunito un altro padre, collettivo stavolta, che merita altrettanto biasimo per non creare i luoghi, le occasioni, gli uffici in cui la richiesta di lavoro possa incontrare l’offerta. E questo padre è lo Stato.”

Altrettanto deciso è l’autore sul valore legale della laurea, richiamandosi alla lezione di Einaudi:” È tutto così vero , così evidente, che oggi, dopo che per sessant’anni è stato “inoculato il veleno del valore legale” nella mente degli italiani, e anzi lo si è reso sempre più facilmente procurabile con lauree brevi,mini-università private, corsi per corrispondenza, parificazioni, riconoscimenti e atenei romeni, suonerebbe quasi offensivo urlare in faccia ai genitori la conseguenza ultima di questo ragionamento che Einaudi esplicitamente traeva: attenzione, la laurea non dà diritto a nulla.”

E non mancano le energiche “correzioni” di Polito a noi italiani sulle lauree comprate e la fuga dei cervelli: ” Per qualche strana ragione se nostri ragazzi vanno in Romania a strappare  una laurea di quart’ordine, in Italia nessuno fiata. Ma se da  laureati vanno in America a fare ricerca ad alto livello o a trovarsi un lavoro ben pagato, apriti cielo: è la famigerata fuga dei cervelli, unanimemente definita una vergogna nazionale e uno spreco di risorse uno schiaffo al talento e un’umiliazione alla patria”.

Ma vi è pure un’altra possibilità di lettura del libro di Polito ed è  quella che io prediligo. Interpretarlo come una testimonianza di ed una riflessione su quella trasformazione culturale che soprattutto a partire dalla seconda metà  del 20º secolo ha progressivamente modificato il nostro atteggiamento verso il mondo, gli altri e  noi stessi. Polito cita al riguardo lo psicanalista Recalcati che parla di “adulterazione dell’adulto, …regressione a un’ immaturità testarda, …rifiuto della responsabilità”.

Il processo, le cui correnti sono varie ed eterogenee, le  radici  profonde e molteplici e su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro, ha la sua essenza in quella trasformazione narcisistica della società di cui parlava, com’è noto, Lasch già negli  anni 70 nel suo memorabile  “La cultura del narcisismo”.  “I mass media, col loro culto della celebrità e il relativo contorno di fascino e richiami sensazionali, hanno fatto dell’America un paese di fan, di spettatori. Dando corpo e sostanza ai sogni narcisistici di fama e gloria, incoraggiano l’uomo comune a identificarsi con gli idoli dello spettacolo e a odiare la “massa”, moltiplicando le sue difficoltà ad accettare la banalità dell’esistenza quotidiana. (Christopher Lasch . La cultura del narcisismo. 1979).

Tale fenomeno culturale e sociale ha preso talmente piede ed ha improntato a tal punto la patologia psichica che in ambito psicanalitico e psichiatrico si è spesso affermato che Narciso ha ormai preso il posto di Edipo e che dunque la colpa, cardine dell’ordinamento sociale – e dunque anche della psicopatologia – dell’Occidente a partire almeno dal cristianesimo, ha lasciato il posto alla vergogna ovvero alla negazione della stessa, l’impudicizia e la svergognatezza. Lo osservava già negli anni 80   Wurmser nella sua  monumentale opera “La maschera della vergogna” (Vergogna ).

Molte preziose riflessioni si sono poi succedute su tale evoluzione. Il già citato Recalcati scrive:”Nel nome di una società orizzontale che esalta i diritti degli individui senza dare il giusto peso alle loro responsabilità evapora la dimensione della mediazione simbolica: fare gli interessi della collettività è percepito come un abuso di potere contro la libertà dell’individuo. Questo declino della mediazione simbolica non significa solo che il nostro tempo ha smarrito la funzione orientativa dei grandi ideali della modernità e scorre privo di bussole certe al di fuori dei binari solidi che le grandi narrazioni ideologiche del mondo (cattolicesimo, socialismo, comunismo, ecc) e le sue istituzioni disciplinari (Stato, Chiesa, Esercito) assicuravano, ma manifesta una sorta di mutazione antropologica della vita. L’individualismo si afferma nella sua versione più cinica e narcisistica investendo la dimensione della mediazione simbolica di un sospetto radicale: tutte le istituzioni che dovrebbero garantire la vita della comunità non servono a niente, sono, nella migliore delle ipotesi, zavorre, pesi arcaici che frenano la volontà di potenza dell’individuo o, nella peggiore delle ipotesi, luoghi di sperpero e di corruzione osceni. (Recalcati, La società orizzontale, Repubblica 25 Novembre 2012).

In tale processo, che ha coinciso anche con un profondo cambiamento delle identità e dei rapporti di e tra generi, anche il ruolo del padre si è profondamente trasformato. Polito cita al riguardo lo psichiatra e psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet, secondo la quale “il padre etico è stato sostituito dal padre affettivo e accuditivo”.

Ora, non c’è dubbio che sia andata così e i limiti e le conseguenze negative di tale trasformazione Polito ce li mette – doverosamente – sotto gli occhi  per tutto il suo libro. A ben vedere però questa trasformazione in padre affettivo  non è altro che il rovescio della medaglia di un altro processo tutt’altro che negativo che si è pure sviluppato negli ultimi decenni sia nella società che a maggior ragione in ambito psichiatrico e psicoterapeutico. Il  processo per cui anche i maschi hanno cominciato a capire qualcosa di sentimenti o almeno  a darsi la pena  di capirne. E parallelamente le donne hanno sviluppato sempre più la tendenza a non lasciarsi intrappolare nella retorica degli sentimenti e nella passività dell’accettazione degli stessi. Semplificando molto, si potrebbe dire che l’empatia ha fatto breccia tra i maschi ed ha cominciato a venir ridimensionata tra le femmine. Parallelamente l’empatia ( con la sua base neurofisiologica dei neuroni specchio) ha assunto un ruolo sempre più significativo in psicoterapia, venendo considerata, a torto o a ragione,  la struttura portante del rapporto paziente terapeuta e la chiave del successo della terapia (empatia).

Che noi padri ci diamo oggi la pena  di comprendere quel che passa nel cervello e nel cuori dei nostri figli anziché starcene davanti a – a seconda dell’età e dei gusti – giornale, bicchier di vino, TV, computer, tablets e smartphone vari non mi sembra poi così male. Si tratta naturalmente di capirsi su cosa intendiamo per empatia. Se  ne facciamo una sorta di Nutella sentimentale in cui confondiamo i confini nostri e quelli altrui mettendoci a singhiozzare quando nostro figlio piange ed a sghignazzare quando nostra figlia ride , meglio lasciar perdere ed imparare prima la lezione dalle nostre partners.

Empatia non vuole dire infatti contagio emotivo e/o confusione con l’altro ma capacità di identificarsi per un momento con lui, distanziarsi da tale identificazione ed oscillare tra queste due posizioni  (Kutter) in modo che si possa sviluppare un reale dialogo ed un’evoluzione del rapporto. Lo specifico ruolo del padre consiste a mio avviso allora in questo nostro nuovo mondo confuso, liquido narcisistico ed empatico insieme non  nell’imporre ma nel tenere la sua posizione. Solo affermando la propria identità in un dialogo veramente empatico il padre può consentire  al figlio di costruire la propria. E ciò non può avvenire che nella frustrazione e nella delusione. È solo da una “sana” e – per entrambi, padre e figlio – dolorosa frustrazione che può nascere per il  figlio l’impulso alla separazione ed alla costruzione dì sè stesso e della propria identità.

Una storiella molto nota lo illustra molto bene. Un bambino è sull’albero e il padre gli chiede di buttarsi fiducioso perché lui lo accoglierà a braccia aperte. Il figlio si butta e viene effettivamente accolto nelle braccia paterne senza farsi alcun male. La cosa si ripete più volte. Il figlio chiede sempre rassicurazione al padre prima di buttarsi  e, al suo salto,  viene regolarmente preso dal padre. Sale ancora più in alto e si butta ancora. Questa volta cade però rovinosamente a terra perché  il padre non è più lì ad accoglierlo. Il figlio allora ferito, triste e furente rimprovera al padre di non volergli bene. Facile a questo punto intuire la risposta del padre: ” Proprio perché ti amo, ti ho lasciato cadere”. Il padre della storiella è forse un padre tanto modello da risultar quasi inumano. In realtà non riusciamo nemmeno a volerci spostare da quell’albero, e Polito ce lo dice interpretando genialmente il mito greco, secondo il quale i primi dei divoravano i loro figli, come un desiderio di averli sempre con loro. Più semplicemente e dolorosamente insieme, noi padri non ci siamo, non possiamo esserci quando nostro figlio cade o meglio ancora ci siamo non essendoci.  E così dev’essere. È proprio in quel momento che lui è diventato un po’ più sè stesso.

Giuliano Castigliego

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