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Suicidi,dignità e vergogna

             suicidio        

Suicidi, dignità e vergogna

Travolto, come tutti del resto, dalle dolorose emozioni che il triplice suicidio di #civitanova ha suscitato, torno, dopo i post precedenti crisi, suicidi e superamento della vergogna/  , sul tema dei suicidi. Ricordo bene il mio dolore straziante – congiunto al senso di colpa – per il suicidio di alcuni miei pazienti. E sarà stato il mio certo poca cosa rispetto a quello dei loro familiari. Sono tragedie immani in cui il lutto è permeato, ancor più del solito, di rabbia, impotenza, smarrimento di fronte al dubbio (se avessi detto, fatto, non fatto…) che lacera mente e cuore. Proprio per questo non possiamo archiviarle con facili ed auto assolutorie commozioni e/o indignazioni (per il comportamento altrui). Nel più profondo rispetto e cordoglio per i defunti ed i loro familiari dobbiamo anche riflettere su dati e fatti per superare luoghi comuni e semplificazioni.

Dati statistici: contrariamente alla percezione soggettiva ed all’allarme suscitato da alcuni media e social media, i dati statistici Istat almeno attualmente disponibili dimostrano un calo dei suicidi nel periodo 1993-2009, quando la crisi era già avviata.  “Fra i Paesi Ocse, l’Italia registra uno dei più bassi livelli di mortalità per suicidio. Tra il 1993 e il 2009 la mortalità è diminuita significativamente da 8,3 a 6,7 suicidi ogni centomila abitanti, con piccole variazioni su livelli storicamente bassi negli ultimi anni”. (vd. anche come usare le statistiche  ). Il tasso del 2010 è rimasto praticamente identico a quello del 2009 e cioè  0,62 per 10.000 abitanti. Precisato che  per il 2012 i dati Istat non sono ancora disponibili sul sito, non si sarebbe tuttavia constato un aumento dei suicidi come argomenta Stefano Marchetti, responsabile dell’ultima indagine dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) su suicidi e tentativi di suicidio in Italia, relativa all’anno 2010, nell’edizione online di  Wired

“ Ogni anno in Italia si verificano circa tremila casi di suicidio, con punte di quasi quattromila casi nei primi anni Novanta”, osserva Marchetti … “ Ogni gesto estremo, come quelli che le cronache recenti raccontano, nasconde una tragedia umana e impone il massimo rispetto. Ma è difficile affermare, a oggi, che vi sia un aumento statisticamente significativo dei suicidi dovuto alla crisi economica. Temo che si stiamo facendo affermazioni forti, senza robuste evidenze scientifiche”.

” Dopo di che, – prosegue l’articolo – è innegabile che le difficoltà economiche o la mancanza di un lavoro possano gettare nella disperazione. Secondo il recente rapporto dell’ Eures Ricerche Economiche e Sociali, intitolato Il suicidio in Italia al tempo della crisi sarebbero in aumento i suicidi tra i disoccupati (362 nel 2010, contro 357 nel 2009 e una media di 270 nel triennio precedente), con un +40% tra 2008 e 2010. I più a rischio sarebbero proprio loro, quelli che hanno perso il lavoro o non riescono a trovarlo, seguiti da imprenditori e liberi professionisti”.

Tuttavia il sociologo Barbagli ha spiegato a Repubblica che “non c’è nessuna emergenza suicidi dovuta alla crisi economica”. In un articolo di Paola Guarnieri  si legge che “nel 2012 sono stati registrati 3048 suicidi, di cui 1412 per malattia, 324 per cause affettive e 187 per motivi economici. Cifre inferiori rispetto all’anno precedente, quando su 2986 casi, 198 erano dovuti a ragioni finanziarie”.

Riassumendo: il nostro paese è per fortuna agli ultimi posti nel tasso di suicidi ed ha avuto un’ulteriore riduzione dal 1993 al 2009, quando la crisi era già  avviata. Il tasso del 2010 è rimasto identico a quello del 2009 e cioè  0,62 per 10.000 abitanti. I dati statistici per gli anni 2011-12 non sono ancora pienamente disponibili ed elaborati; alcuni, peraltro parziali, raffronti con gli anni precedenti non sembrano – per fortuna – testimoniare un incremento dei suicidi nella popolazione in generale, ma invece un significativo aumento in categorie a rischio. Pur nella piena consapevolezza dunque dei drammatici effetti sociali della crisi economica soprattutto sulle persone più indigenti, diversi autorevoli esperti di statistica e sociologia non riscontrano tuttavia segnali tali da giustificare un allarme suicidi in Italia ed invitano alla prudenza anche nel linguaggio e nella comunicazione sul tema. Il chè non vuol dire affatto nascondere, minimizzare il fenomeno ma trattarlo con atteggiamento critico e responsabile anche perchè…

Effetto Werther:

l’effetto Werther esiste e dev’essere tenuto in debita considerazione non solo da tutti quelli che hanno a che fare nella vita reale con familiari, amici e conoscenti di suicidi ma anche e soprattutto da tutti coloro che informano su tali fenomeni. E’ stato denominato così proprio a causa dell’onda di suicidi registrata in tutta Europa alla fine del settecento dopo la pubblicazione dell’opera di Goethe “I dolori del giovane Werther”, in cui il protagonista si suicida a causa di un amore infelice. Quest’effetto, che è una sorta di caso particolare e particolarmente tragico, del comune fenomeno del contagio emotivo, non è un trucco dei politici, dei media, degli psichiatri cattivi per tenere nascosto alla popolazione una tragica realtà. È invece esso stesso una tragica realtà – forse in azione anche nel triplice omicidio di Civitanova – che dovrebbe essere presa estremamente sul serio in particolare dai bloggers e dagli users di social media che si trovano a gestire la carica emotiva di tali notizie in un contesto caratterizzato proprio dalla ricerca del contagio. Ma che dovrebbero meditare anche quei politici che dei suicidi abusano, che mettono i suicidi ad es. in conto a Monti, Draghi, Berlusconi, Bersani etc. che fanno paragoni tra Equitalia e la mafia o che danno per certo che un certo suicida “non sarà l’ultima vittima”. Scrive il sociologo Barbagli “Dare risalto a queste storia porta all’ ‘effetto Werther’, dal nome del protagonista suicida del libro di Goethe. Alla fine del diciottesimo secolo alcune persone si suicidarono e furono trovate con quel libro in mano. Oggi ci sono 56 studi internazionali che dimostrano l’effetto emulazione. Nasce proprio dal modo in cui vengono diffuse queste notizie”. Anche perchè le

CausE del suicidio:

come numerosissimi studi, la pratica clinica oltre che l’esperienza comune dimostrano, sono molteplici e nel singolo caso sempre molto difficili, se non impossibili, da stabilire. Come si legge nel rapporto 2011 dell’ osservasalute  “il suicidio è, indubbiamente, un fenomeno connesso alla salute mentale della popolazione”  ed i “principali fattori di rischio documentati nell’ideazione suicidaria sono rappresentati dal genere maschile, dall’età anziana, dalla presenza di un disturbo psichiatrico e dall’abuso di sostanze. L’aver attuato un precedente tentativo di suicidio risulta fortemente associato con il rischio di ripetizione dell’atto con esiti letali”. Ragion per cui “l’Organizzazione Mondiale della Sanità e la Commissione Europea indicano tra le azioni efficaci per ridurre i tassi di suicidio anche la riduzione della disponibilità e dell’accesso ai mezzi utilizzati per attuare il suicidio (come le armi da fuoco e le sostanze tossiche), la prevenzione ed il trattamento della depressione e dell’abuso di alcol e droghe, nonché il monitoraggio e la presa in carico delle persone che hanno tentato il suicidio”.

Naturalmente “anche fattori di tipo culturale, ambientale e socio-demografico giocano un ruolo nel determinare la variabilità dei tassi di suicidio” per cui il suicidio “può̀ anche essere letto come un indicatore di “disagio” e di mancata coesione ed integrazione” (ibidem).

È indubbio e persino ovvio che difficoltà finanziarie, soprattutto se improvvise, possono avere conseguenze negative sulla psiche. Qualcuno calcola addirittura che la diminuzione di mezzo punto di PIL sia associata ad una maggior incidenza di disturbi psichici, con buona pace della decrescita. Ma decisivo è il fatto, mai abbastanza sottolineato, che non vi è – per fortuna – un collegamento diretto e lineare tra insolvenza finanziaria e suicidio. In mezzo si (frap)pongono svariati  fattori, tra cui, decisivi, la libertà di scelta personale e lo sviluppo – o meno – di disturbi psichici. La prima è quella che influisce anche nel decorso di malattie incurabili. Di fronte alla diagnosi di tumore inoperabile ed intrattabile c’è chi sceglie di vivere nei pochi mesi che gli restano quanto non ha fino a prima vissuto, chi affronta la battaglia dal letto di casa o d’ospedale e chi cerca il suicidio assistito, come nel bellissimo film Quelques heures de printemps   . Tutte scelte a mio avviso legittime e meritevoli di rispetto, proprio perchè frutto di una scelta libera, anche se gravata da condizioni drammatiche. Se noi consideriamo il suicida per motivi finanziari come un automa “costretto” dalle circostanze a suicidarsi lo priviamo anche di quel briciolo di libertà che con la sua scelta ha voluto, anche se tragicamente, rivendicare. Certo per i familiari è difficile se non impossibile vedere nel suicidio un sia pur disperato atto di volontà e noi non possiamo che accettare con rispetto la loro pena ed il loro cammino di lutto. Tra l’incertezza finanziaria e la morte volontaria vi è poi un più o meno breve ma sempre drammatico sviluppo, spesso depressivo, fatto di rabbia, impotenza, tristezza, rassegnazione, disperazione. Uno sviluppo che spesso può essere intercettato ed efficacemente combattuto da medici di base, psichiatri e psicoterapeuti, infermieri, ass. sociali, religiosi, oltre che da familiari ed amici. Ammettere e/o riconoscere un tale sviluppo, anziché concentrare tutta l’attenzione sugli aspetti finanziari, come pure viene spontaneo fare in questi casi, può essere decisivo per salvare vite umane.

Cosa fare

Credo molte cose a livelli diversi, possibilmente integrate fra loro, anche se tutte tutt’altro che facili.

Innanzitutto lo Stato deve adempiere ai suoi compiti, primo tra tutti quello di pagare i debiti in tempi giusti. E finalmente sembra che ciò stia in questi giorni avvenendo, anche se con colpevole ritardo- che certo non può essere però rimproverato a @lauraboldrini10, che anzi ci mette faccia e sincera partecipazione emotiva.

Le tante associazioni di solidarietà e sostegno finanziario e sociale di cui il nostro paese dispone sono secondo me una risorsa importantissima non solo e non tanto per l’aiuto materiale ma anche e soprattutto per dare alla persona in difficoltà la sensazione di essere percepita nei suoi bisogni, presa sul serio e sostenuta. In un bellissimo articolo sul Corriere della Sera del 4 maggio 2012 Dario di Vico @dariodivico invitava, di fronte alla ” rete di rapporti che si sta smagliando e che nessuno sembra avere la forza e la pazienza di rammendare” a fare “i sarti”, a dedicare tempo e parte del potere “per ascoltare, avanzare proposte sensate e soprattutto ricucire i legami che si sono allentati, le solidarietà che sono saltate. … per ricostruire quel rispetto reciproco che manca”.  In un’epoca segnata a livello mondiale dal disorientamento e dalla paura – quella ontologica di Bauman, quelle nuove di Augé, la paura delle paure di Diamanti – ed in particolare in Italia da un estremo grado di sfiducia (secondo il rapporto Bes 2013 – dove Bes  sta per “benessere equo e sostenibile”, un nuovo modo, alternativo al Pil, per misurare il progresso della nostra società – solo il 20 per cento degli italiani intervistati dichiara di aver fiducia nelle altre persone, mentre la media dei Paesi Ocse è al 33 per cento, e in Danimarca e Finlandia si raggiunge il 60 per cento ) si tratta allora di ritrovare sia a livello collettivo che individuale la fiducia.

Ma non vanno dimenticate le istituzioni, quali l’assistenza comunale, preposte proprio allo scopo di aiutare i cittadini a superare i momenti di difficoltà finanziaria. Se il cittadino non può ragionevolmente chiedere allo Stato di prevenire crisi economiche di portata mondiale, deve tuttavia poter contare su un aiuto assistenziale certo quando non può provvedere a sè stesso. E qui non va confusa nel pur legittimo rifiuto dell’assistenza, la dignità con la vergogna, come mi sembra invece abbia fatto in questi giorni qualche sia pur brillantissimo ed umanissimo giornalista. L’apparente dignità, spesso evocata dalle persone in difficoltà e frequentemente invocata anche in taluni drammatici messaggi d’addio, cela spesso un inflessibile  sentimento di vergogna, che purtroppo isola, opprime ed annienta. La vergogna, può essere sì la forma di rispetto più elevato (Goethe), ma può anche divenire un tiranno crudele che tutto in noi svaluta e disprezza (Wurmser, La maschera della vergogna), fino all’annientamento totale di noi stessi. È compito credo di tutti noi, prossimo evangelico o vicino solidale, aiutare le persone in difficoltà a vincere tale forma di vergogna.

Credo infine che sia compito soprattutto di noi psichiatri, psicologi e psicoterapeuti ma anche di medici di medicina generale, assistenti sociali ed infermieri illustrare meglio anche  l’efficacia, le tappe e le diverse modalità delle cure che vanno dal supporto empatico-affettivo, alla terapia farmacologica e psicologica fino, nei casi più gravi, al ricovero ospedaliero. Prima e più ancora di curare, si tratta di prendersi cura della persona, aiutarla a sentirsi correttamente percepito ed accettato nella sua disperazione, a superare sentimenti di vergogna che lo isolano ed a sviluppare invece nuovi sentimenti e legami di appartenenza.  Si tratta ancora di essergli vicino rispettando tuttavia la libertà nel suo doloroso cammino di ricerca per (ri)dare senso alla propria drammatica vicenda e riannodare il delicato filo della propria esistenza.

Giuliano Castigliego

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